Dall'infinitamente piccolo all'infinitamente grande

Punti di vista

Quando Edwin A. Abbot scrisse "Flatlandia" aveva in mente un preciso scopo: voleva porre i lettori nella loro condizione di finitezza e fare in modo che potessero cogliere l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo, passando per un "racconto fantastico a più dimensioni" adatto a tutti, dai più grandi ai più piccoli, che vuole ricordare agli esseri umani quale sia, nei fatti, la loro condizione nell'universo, e quanto le loro capacità di cogliere la realtà siano limitate.

Nel libro si parla di un ottagono -un comunissimo abitante di Flatlandia, parodia di un uomo comune- che vive la sua vita serenamente, certo del fatto che il suo mondo sia bidimensionale, piatto, "Flat", per l'appunto. Un giorno questo ottagono scopre l'esistenza di una terza dimensione grazie a una sfera che attraversa il suo mondo. Tramite a una serie di rivelazioni fatte dalla sfera (che l'ottagono vede come un cerchio che si allarga e si stringe mentre passa attraverso la sua città bidimensionale) l'ottagono comprende che il suo mondo è solo una riduzione di un mondo con una dimensione in più. All'inizio è convinto che la sfera sia una sorta di divinità, dato che è l'unico essere in grado di mutare a suo piacimento le sue dimensioni (in base a quale sezione di sé sceglie di intersecare col piano di Flatlandia), ma poi la prende come maestra per imparare a conoscere altri mondi.

Dal suo rapporto con la sfera scaturisce la consapevolezza che Flatlandia non è altro che un banale foglietto, e insieme a tale consapevolezza, anche una domanda: ma non è che forse anche il mondo della sfera è solo una riduzione di un altro mondo a quattro dimensioni, e quello a quattro una riduzione di un mondo a cinque? E così via.... La sfera nega, affermando che una cosa del genere è impossibile, senza però rendersi conto che il suo scetticismo è lo stesso che ha avuto l'ottagono quando ha saputo di una terza dimensione.

Una volta abbandonata la sfera e tornato a Flatlandia, l'ottagono ha una visione onirica. In essa vede Pointlandia, un mondo composto da nessuna dimensione. Il punto è esso stesso il suo universo, il suo credo, per lui la pluralità non ha senso e ogni sensazione che prova, la prova da sé, per sé. Il libro termina con una curiosa riflessione: l'ottagono si rende conto che, in effetti, la sua realtà razionale si basa sul nulla. Se infatti il punto è tutto, e al contempo è niente, significa che linelandia (a una dimensione) è solo una serie di punti che non hanno alcuna dimensione, cioè che non costituiscono niente in sé. E allora il suo mondo, a due dimensioni, che non è altro che una serie infinita di Linelandia impilate le une vicino alle altre, che cos'è? E dunque, proiettando la questione nel nostro mondo a tre dimensioni, cosa siamo noi, se la nostra base è il nulla? Anche perché, apparentemente, la situazione si può ripetere all'infinito: se impilo infiniti punti, ottengo una retta, se impilo infinite rette, ottengo un piano, se impilo infiniti piani ottengo volumi. Ma se impilo volumi? Ad esempio, impilando idealmente infiniti cubi... si dovrebbe ottenere un ipercubo, cioè un cubo a quattro dimensioni, oggetto che matematicamente è descrivibile, ma che, nei fatti, non è del tutto concepibile dalla nostra mente, che di dimensioni ne vede solo tre. Per cui, volendo, si potrebbero costruire infinite dimensioni semplicemente allineando punti, linee fatti di punti, piani fatti di linee...

La prospettiva diventa ancora più terrorizzante: infinite dimensioni da un "ente" adimensionale? Non è un caso che Abbot abbia voluto chiudere Flatlandia con una visione quasi spirituale, ossimorica del nostro mondo. Anche perché non si può dire che sia stato l'unico ad averci ragionato sopra: nella filosofia di Parmenide, ad esempio, il concetto di punto viene del tutto aborrito in favore di un essere unico, continuo, immobile, eterno ed immutabile. Cioè per Parmenide non ha senso parlare di punto, perché parlando di punto si sancisce l'idea che esista qualcosa di "inesistente", cioè di privo di dimensione. E se non ha dimensione, lui sostiene, allora semplicemente non ci deve essere; non può interporsi tra due oggetti, perché non è presente, né tantomeno può formare dei corpi. La massa elementare del nostro universo, per Parmenide, è qualcosa di unico, come detto, ma soprattutto di indivisibile. Ricominciamo da capo e vediamo, passo passo, come la matematica affronta la questione.

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Dal punto di vista della costruzione formale, il Punto è ciò che in geometria si definisce un concetto primitivo: un'idea talmente fondamentale che non può essere spiegata o dedotta da definizioni precedenti. Non possiamo "spiegare" che cosa sia un punto usando termini più semplici, né possiamo ridurlo ad altro: lo accettiamo, senza dimostrazione, come elemento di base da cui partire. Questa accettazione avviene tramite un assioma: una verità che si assume come evidente senza necessità di prova. I concetti primitivi — come il Punto, la Retta e il Piano — costituiscono le colonne portanti dell’intera architettura geometrica. Ogni altra definizione o teorema dipende da loro. In un certo senso, la forza della geometria risiede proprio nella solidità e nella coerenza con cui costruiamo, a partire da questi fondamenti non dimostrati, un immenso edificio logico.

Accettare l'esistenza del Punto come fatto iniziale equivale, per il matematico, a riconoscere che ogni teoria ha bisogno di una base di partenza: qualcosa di così elementare da essere preso come dato di fatto, senza ulteriori domande. La geometria euclidea, per esempio, si fonda su pochi concetti primitivi e su pochi assiomi, ma riesce a edificare un'intera teoria coerente e potente, capace di descrivere il mondo con incredibile precisione. Così, il Punto, pur essendo privo di estensione, di larghezza, di altezza, diventa il mattoncino invisibile sul quale si erge l’intero universo geometrico. La nostra logica, a pensarci bene, si fonda su qualcosa di così logico?

Quanto piccolo?

I numeri iperreali

Un numero iperreale è un elemento cardine nell'analisi non standard, introdotta dalle ricerche di Abraham Robinson dell'università Yale nel 1966 sul suo libro Non-Standard Analysis. Un numero iperreale è un numero appartenente all'insieme *ℝ, una struttura matematica che può essere costruita a partire da R, ma che risulta più ampia. Esso stesso viene definito a partire dal numero infinitesimo.
Si tratta di particolari campi non-archimedei che soddisfano tutte le “proprietà elementari” di R.

Si dice estensione non standard (dell’analisi elementare) una corrispondenza ∗ che associa ad ogni oggetto standard A dell’analisi elementare un unico oggetto nonstandard A∗, in modo che siano verificate le proprietà seguenti:

Secondo Robinson un infinitesimo è un numero ε minore in valore assoluto di qualsiasi 1/n per ogni n ∈ ℕ.
A differenza di Leibniz, egli attribuisce a tali ε la dignità di numeri:
la categoria dei numeri iperreali è l’insieme dei reali, degli infinitesimi, dei reciproci degli infinitesimi (numeri infiniti) e di altri numeri vicini ai reali.

Un numero iperreale non infinito è della forma a+ε con a numero reale e ε un infinitesimo

Di conseguenza, attorno un numero reale, esiste un intorno di numeri iperreali a distanza infinitesima da esso, i quali costituiscono l’insieme degli a+ε: tale insieme è detto monade indicato con μ(a).

Si dimostra che ε è minore di ogni numero reale positivo.

La monade viene definita come la classe di equivalenza della relazione a ≈ b se a-b è un infinitesimo o 0.

Non continuità dei numeri iperreali

La retta dei reali è immersa nella retta degli iperreali. Per questa non vale l’assioma di Archimede (asserisce che, dati comunque due segmenti di lunghezza rispettivamente s₁ e s₂, con s₁ ≤ s₂, esiste sempre un multiplo intero di s₁ maggiore o uguale a s₂), quindi non è detto che, dati due numeri a e b, con 0 < a < b, esiste un numero intero N per cui valga la relazione Na > b. Come conseguenza, non sempre esiste l’elemento di separazione tra due semirette contigue (essendo situate sulla stessa retta, condividono un punto in comune, detto origine).

Dimostrazione

Supponendo per assurdo che esiste l’elemento di separazione per qualsiasi coppia di semirette contigue, allora ammettiamo l’esistenza per una coppia in particolare: la semiretta r che contiene tutti gli iperreali negativi, lo zero e tutti gli iperreali infinitesimi e la semiretta r' contenente tutti gli iperreali non infinitesimi positivi.

Chiamiamo σ l’elemento di separazione (sarà maggiore di zero e di tutti gli elementi di r).

Distinguiamo i due casi:

Quindi non esiste un elemento di separazione tra r e r'.

Principio di transfer (o principio di Leibniz)

Sia P(a₁, . . . , aₙ) una proprietà degli oggetti standard a₁, . . ., aₙ espressa in forma elementare.

Allora P(a₁, . . . , aₙ) vale se e solo se la stessa proprietà vale per le corrispondenti estensioni non standard, cioè:
P(a₁, . . . , aₙ) ⇔ P(a*₁ , . . . , a*ₙ).

Per evitare il caso banale in cui ∗ è l'identità, si assume che A* ≠ A per ogni A infinito.
Il principio di transfer è una formalizzazione dell’idea originale di Leibniz sugli infinitesimi, secondo la quale il loro uso era regolato dalle “stesse leggi” valide per i numeri reali.

Una proprietà P è espressa in forma elementare quando è espressa da una formula in cui ogni quantificatore è ristretto ad un insieme. In altre parole, ogni volta che si ha una quantificazione “per ogni x ...” oppure “esiste un y ...”, è necessario specificare all’interno di quali insiemi le variabili x ed y stanno variando: “per ogni x ∈ A ...” oppure “esiste y ∈ B ...”.

Non è invece ammesso quantificare su sottoinsiemi, cioè formule che contengono espressioni del tipo “per ogni sottoinsieme X ⊆ A . . .” non sono espresse in forma elementare. L’estensione non standard +* della funzione binaria somma sui numeri reali determina una operazione binaria su ℝ*. Analogamente per l’operazione prodotto. L’estensione <* dell’ordinamento su ℝ è definita come la relazione binaria soddisfatta dalle coppie ordinate dell’insieme {hx, yi ∈ ℝ × ℝ | x < y}*.

Applicando il principio di transfer si dimostra il seguente Teorema:

(ℝ*, +*, ·*, <*, 0, 1) è un campo ordinato estensione propria di ℝ. Un tale ℝ* si dice campo dei numeri iperreali dell’analisi non standard.
Analogamente, sempre per transfer, si dimostra che l’insieme dei numeri ipernaturali ℕ* è un sottoinsieme illimitato di ℝ*, e che ogni suo elemento ν ha come successore immediato ν+1 ∈ ℕ* e come predecessore immediato ν−1 ∈ ℕ* (purché ν ≠ 0). Inoltre, tutti gli ipernaturali non standard sono infiniti, cioè se ν ∈ ℕ* \ ℕ, allora necessariamente ν > n per ogni n ∈ ℕ.

Da quanto visto fin qui, si potrebbe essere indotti a concludere che applicare il transfer consista semplicemente nel mettere degli asterischi. In realtà le cose non sono così semplici. Ad esempio, per transfer dalla proprietà di completezza di ℝ si dovrebbe dedurre che anche i numeri iperreali ℝ* sono completi.

Ma questa conclusione è falsa! (abbiamo già notato che gli infinitesimi sono un insieme superiormente limitato senza sup).
Dov’è l’errore?
Analizzando la usuale definizione di completezza, si nota che essa contiene una quantificazione non ristretta: “per ogni sottoinsieme non vuoto di ℝ”. Non è quindi espressa in forma elementare e non possiamo pertanto applicarvi il principio di transfer. Seguendo l’uso comune, nel seguito ometteremo gli asterischi nel denotare le estensioni non standard delle funzioni (ad esempio scriveremo + anziché +* per denotare la somma tra numeri iperreali, ecc.).

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Analisi con metodi non standard

Introduciamo il concetto di continuità.

Una funzione f : (a, b) → ℝ è continua in un punto x₀ ∈ (a, b) se per ogni ε ∼ 0, si ha f(x₀ + ε) ∼ f(x₀).
Una funzione f è quindi continua nel punto x₀ se i punti “vicini” ad x₀ hanno un'immagine “vicina” a f(x₀).

Il concetto di continuità uniforme è alla base della dimostrazione che ogni funzione continua su un intervallo chiuso e limitato è ivi integrabile. Distinguere continuità e continuità uniforme non è facile, viene in nostro soccorso l’analisi non standard che ci consente di formulare le definizioni con termini più semplici.

Una funzione f: I → ℝ è uniformemente continua su un intervallo I se per ogni ξ, ζ ∈ I*, si ha che ξ ∼ ζ ⇒ f(ξ) ∼ f(ζ).
Mentre nella continuità si considera la coppia di punti che contiene il numero reale x₀, per l’uniforme continuità occorre considerare tutte le coppie di numeri iperreali (quindi anche le coppie di punti entrambi infinitesimi o infiniti).

Ogni funzione uniformemente continua su I è necessariamente continua in ogni punto di I, ma non vale il viceversa.

Ad esempio, la funzione “quadrato” f(x) = x² non è uniformemente continua su ℝ. Infatti, fissato un numero infinito Ω, si ha Ω ∼ Ω + 1/Ω mentre f(Ω + 1/Ω) − f(Ω) = 2 + 1/Ω² non è infinitesimo.

Il teorema di Cantor

Ogni funzione continua f : [a, b] → ℝ su un intervallo chiuso e limitato è uniformemente continua.

Dim. Se due punti ξ, ζ ∈ [a, b]* sono infinitamente vicini allora hanno la stessa parte standard st(ξ) = st(ζ) = x₀. Poiché [a, b] è chiuso e limitato, x₀ ∈ [a, b]. Per continuità, f(ξ) ∼ f(x₀) ∼ f(ζ), dunque f(ξ) ∼ f(ζ).

Una funzione f : (a, b) → ℝ è derivabile in un punto x₀ ∈ (a, b) se esiste un numero reale f'(x₀) tale che, per ogni infinitesimo ε ≠ 0,
(f(x₀ + ε) − f(x₀)) / ε ∼ f'(x₀)

Dunque una funzione è derivabile nel punto x₀ quando tutte le rette secanti il suo grafico in corrispondenza ad incrementi “piccoli” di x₀, hanno un coefficiente angolare “vicino” a f'(x₀).

A titolo di esempio, consideriamo la funzione “quadrato” f(x) = x². Per ogni x₀ ∈ ℝ e per ogni infinitesimo ε ≠ 0:
(f(x₀ + ε) − f(x₀)) / ε = (x₀² + 2x₀ε + ε² − x₀²) / ε = 2x₀ + ε ∼ 2x₀

Resta così dimostrato che f è derivabile in ogni punto.

Discussioni sul calcolo differenziale

Il calcolo infinitesimale

Sotto questo nome si comprendono insieme il calcolo differenziale ed il calcolo integrale. Il calcolo integrale ci consente di ottenere la lunghezza di una curva , il volume di un solido , l’area di una superficie . Il calcolo differenziale risolve questioni quali la tangente ad una curva , gli estremi di una funzione , la velocità istantanea di un punto materiale.

Non è possibile fissare con precisione le origini del calcolo differenziale ; tuttavia può affermarsi con sicurezza che il suo sorgere fu preparato dagli studi che si svilupparono nel secolo XVII intorno ai problemi della tangente ad una curva (Fermat , Cartesio, Torricelli , Barrow ) , della velocità istantanea di un punto materiale) e dei massimi e minimi delle funzioni. Già in epoca antica, matematici come gli Egizi e i Babilonesi (tra il 2000 e il 500 a.C.) avevano sviluppato tecniche rudimentali per risolvere problemi pratici come il calcolo di aree, volumi e pendenze. Queste tecniche erano più empiriche che teoriche: non avevano ancora la struttura concettuale del calcolo differenziale. Il primo passo importante verso il concetto di limite (fondamentale nel calcolo) viene fatto dai Greci. Eudosso di Cnido sviluppa il metodo di esaustione, una tecnica per determinare l’area e il volume di figure attraverso un processo di approssimazione successiva. L’idea era quella di “esaurire” la figura, inserendo all’interno poligoni con un numero crescente di lati, avvicinandosi sempre più al valore vero dell’area o del volume. Gli Egizi (come testimonia il Papiro di Rhind, circa 1650 a.C.) e i Babilonesi avevano sviluppato delle tecniche senza alcuna teoria dei limiti o del continuo. Erano metodi tabellari ed empirici. Gli Egizi sapevano approssimare l’area di un cerchio usando una formula semplice, ma errata dal punto di vista teorico: consideravano un cerchio come equivalente a un quadrato di lato 8/9 del diametro. I Babilonesi avevano tabelle di radici quadrate, il che suggerisce che sapevano risolvere equazioni di secondo grado in modo operativo.

La matematica greca urtò quasi dai suoi inizi contro il problema dell’infinito . Questo problema si presentò quando furono scoperte le cosiddette linee incommensurabili. << Non esiste un segmentino di retta , per quanto piccolo si scelga , che sia contenuto esattamente un numero intero di volte tanto nel lato quanto nella diagonale di un qualunque quadrato>>. Un solo rimedio è possibile , di fronte alla sconcertante scoperta delle linee incommensurabili : l ‘ annichilimento del punto, che viene ridotto ad una entità evanescente , cioè senza dimensioni come punto geometrico.

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A sinistra, il manoscritto di Aristotele per il calcolo dell'area del segnemnto parabolico. I matematici greci, di fronte ai problemi dell’infinito, si misero ben presto in posizione di difesa del rigore matematico, della precisione, dell’esattezza dei ragionamenti che l’anomalo infinito matematico rendeva talvolta vacillante, ponendo il matematico di fronte a paradossi , abusi , errori .

L’infinito si presentò soprattutto in due questioni :

La cosa è facile per i poligoni nel piano e per i prismi nello spazio . Ma non per tutte le figure piane è possibile mettere in evidenza la loro equivalenza scomponendole in un numero finito di parti finite a due a due uguali . Per raggiungere lo scopo dovremmo suddividere le figure in infiniteparti infinitamente piccole. Ma la matematica greca ufficiale non percorse questa via , e , per evitare l’uso diretto dell’infinito escogitarono geniali teorie, che si mossero in ambito perfettamente rigoroso .

Fu il matematico Eudosso di Cnido il maestro dei maestri in questo campo e per questo motivo è stato definito il più grande imbrigliatore dell’infinito . Egli rispose alla prima esigenza ( determinazione del rapporto tra due grandezze incommensurabili ) mediante la teoria delle proporzioni , che ritroviamo poi esposta nel libro V degli Elementi di Euclide ; rispose alla seconda esigenza con quel metodo che nel seicento chiamarono metodo di esaustione e che troviamo applicato nel libro XII degli stessi elementi di Euclide . Sia con la teoria delle proporzioni , sia col metodo di esaustione , Eudosso evitò l’uso diretto dell’infinito , ma non potette certo evitarne l’uso indiretto : ad ogni modo , attraverso i rigidi schemi da lui escogitati fornì una trattazione perfettamente rigorosa. In questo modo la matematica greca vinse la sua battaglia contro l'infinito: evitandolo fin dove possibile.

Il paradosso di Zenone

Il problema dell’infinito , come il problema degli irrazionali ad esso strettamente collegato , si sviluppò su suolo greco ed è li che esso incorse nella sua prima crisi , seguita poi da molte altre . Zenone avanzò argomentazioni volte a dimostrare la contraddittorietà insita nei concetti di molteplicità e divisibilità . I celebri argomenti di Zenone a difesa della filosofia di Parmenide mirano a provarci che , se la negazione del movimento e della molteplicità può a prima vista apparire assurda , l'ammissione di essi conduce ad assurdità ancora più gravi , nascoste ma non risolte dal linguaggio ordinario . Il perno di tali argomenti consiste nella dimostrazione che , sia nella nozione di movimento , sia in quella di pluralità , si annida il delicato concetto di infinito .

I quattro argomenti di Zenone sono :
Paradosso

Zenone paragona il movimento di alcuni punti rispetto a certi punti fermi col movimento che essi stessi manifestano rispetto ad altri punti che si muovono in direzione contraria , ne deduce che un certo tempo è il doppio di se stesso . Nei primi due sofismi Zenone esprime una obiezione alla infinita divisibilità di porzioni finite di tempo e di spazio negli ultimi due ci dimostra le serie difficoltà che sorgono se facciamo l’ipotesi opposta , vale a dire che lo spazio ed il tempo non sono infinitamente divisibili ma sono composti di punti e di istanti che si possono calcolare in un numero finito di fasi successive.

Il successivo indirizzo della scienza greca mostra chiaramente quanta influenza abbia avuto la crisi scatenata dagli argomenti di Zenone sul pensiero matematico dei greci . Istillando nella mente dei geometri greci l‘ horror infiniti , gli argomenti di Zenone ebbero l’effetto di paralizzare parzialmente la loro immaginazione creativa . L’infinito era tabù , doveva essere tenuto fuori , ad ogni costo oppure , se questo non era possibile , lo si camuffava con ragionamenti ad absurdum.

L’introduzione dell’infinito , nei ragionamenti matematici , presenta delle difficoltà gravi , sulle quali gli argomenti di Zenone avevano contribuito a richiamare l’attenzione di matematici e filosofi. Da qui la necessità per i geometri greci , di possedere un metodo di ragionamento da potere utilizzare nelle questioni relative alle aree ed ai volumi e che evitasse o per lo meno mascherasse l’uso dell’infinito . Il merito di avere creato questo schema di ragionamento è universalmente riconosciuto ad Eudosso di Cnido, con il quale i risultati delle prime ricerche infinitesimali furono acquisite alla scienza . Il metodo di esaustione consiste nel dimostrare che due lunghezze o aree o volumi “ debbono “ essere uguali perché è assurdo che la loro differenza sia diversa da zero . La prova di questa assurdità si ottiene , non da un confronto diretto delle due figure che non è possibile , salvo ad immaginarle suddivise in una infinità attuale di parti ( con tutti i rischi dell’infinito attuale ) , ma dal confronto tra classi di altre figure ( di lunghezza , di area o di volumi calcolabili ) che racchiudono le due date con differenze via via minori : concezione questa che implica soltanto l’infinito potenziale , cioè l’illimitata proseguibilità delle classi di figure considerate .

Qui l’intento di Eudosso era manifestamente quello di evitare le antinomie connesse alla suddivisione di una figura in una infinità ( attuale ) di grandezze infinitamente piccole , antinomie che avevano provocato tante preoccupazioni a tutta la matematica pitagorica . Eudosso di Cnido elabora il metodo di esaustione cioè approssimare un’area (o volume) con una successione di figure semplici (poligoni inscritti e circoscritti). Si “esauriva” lo spazio tra la figura semplice e quella complessa, rendendo la differenza piccolissima.

Per trovare l’area di un cerchio, si inscrive un poligono regolare (un esagono), poi si aumenta il numero dei lati (12, 24, 48…) rendendo la figura sempre più simile al cerchio. L’area del poligono si avvicina sempre più a quella del cerchio, senza mai superarla. Eudosso non parlava di “infinito” in modo moderno, ma il suo metodo era un modo intelligente per evitare i paradossi dell’infinito (come quelli di Zenone). Archimede porta il metodo di esaustione a livelli altissimi. In particolare: Calcola aree e volumi di figure come paraboloidi, sfere, e cilindri. Usa somme geometriche che oggi riconosciamo come precursori di serie infinite.

Per trovare l’area sotto una parabola, Archimede suddivide lo spazio in infiniti triangoli sempre più piccoli, sommando le aree in modo geometrico. Sviluppa un’idea simile alla somma delle serie geometriche. Archimede mostra che, sommando un numero infinito di questi triangoli, l’area totale converge a un valore finito. Anche Archimede evita di parlare esplicitamente di “infiniti”. Usa invece un argomento per assurdo: se esistesse una differenza residua, questa porterebbe a una contraddizione. Per quanto avanzati, i Greci: Non avevano ancora il concetto dinamico di variabile che cambia con il tempo (essenziale per il calcolo differenziale). Mancava il concetto di derivata come tasso di variazione istantanea. Le loro tecniche erano statiche, basate su figure geometriche, non su funzioni o grafici.

Archimede dice: per ogni piccolo errore (epsilon), posso costruire un poligono di così tanti lati che: l’area residua tra il poligono e il cerchio è minore di epsilon. Questo equivale a dire che l’area del cerchio è il limite delle aree dei poligoni inscritti. Se prendi il perimetro del poligono inscritto (che si avvicina al perimetro del cerchio) e lo moltiplichi per mezzo raggio, ottieni un’approssimazione dell’area. Idea: il cerchio può essere “srotolato” come un triangolo di base il perimetro e altezza il raggio. Usando questo metodo, Archimede riesce a “incastonare” il valore di pi tra due valori: circa 3.1408 < pi < 3.1429, una precisione incredibile per l’epoca!

Iscrive ed escrive poligoni di 96 lati (molto complessi da disegnare a mano!). Calcola i perimetri e da lì stima il valore di \pi. Introduce un metodo rigoroso per approssimare grandezze continue usando grandezze discrete. Evita i problemi filosofici dell’infinito parlando di “esaustione” anziché di “limite”. È il principio su cui, secoli dopo, Newton e Leibniz costruiranno il calcolo infinitesimale.

Newton e Leibniz

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Lo storico Castelnuovo scrive : << Non c’è un fondatore del calcolo infinitesimale . La costruzione del Calcolo ha luogo durante un lungo processo , che si estende per oltre un secolo dai primi traduttori e commendatori di Archimede fino a Newton e Leibniz . Ogni passo , entro questo periodo , si compie quando i tempi sono maturi per farne sentire l'interesse e per imporne la necessità >> . Il vero salto avviene nel XVII secolo, grazie a due grandissimi scienziati: Isaac Newton e Gottfried Wilhelm Leibniz.

Entrambi, in modo indipendente, svilupparono ciò che oggi chiamiamo calcolo differenziale (e anche integrale). Newton, principalmente interessato ai problemi di fisica (come il moto dei corpi e la gravitazione universale), sviluppò il concetto di fluente (quantità che scorre nel tempo) e fluxione (la velocità con cui cambia). Per lui, il calcolo serviva a descrivere il cambiamento continuo. Leibniz, invece, fu più orientato alla formalizzazione matematica. Fu lui a introdurre la notazione dy/dx, che ancora oggi usiamo per indicare la derivata. Leibniz vedeva le differenze infinitesime dy e dx come vere e proprie entità matematiche. Newton e Leibniz ebbero una famosa disputa su chi fosse il vero inventore del calcolo. Oggi si riconosce che entrambi arrivarono indipendentemente a scoperte simili, anche se con approcci e linguaggi differenti.

Newton elaborò il metodo delle flussioni che è una forma di calcolo differenziale . Rigettando l’idea che le grandezze geometriche siano costituite da parti infinitamente piccole , egli concepì tali grandezze come prodotte da un moto continuo. Dette fluenti le grandezze generate, chiamò flussioni le velocità con cui esse vengono formate , ed osservò che , considerando intervalli di tempo uguali , ma piccoli quanto si vuole , le flussioni diventano proporzionali agli accrescimenti corrispondenti delle fluenti . Insegnò a determinare le flussioni e questa parte del suo metodo corrisponde al nostro calcolo differenziale . Leibniz , ammesso esplicitamente il principio di continuità , procedette , non per flussioni di linee , ma per differenze di numeri , introducendo le differenze infinitesime e di due punti vicinissimi di una curva . Ciò che oggi noi chiamiamo derivata non è altro che il rapporto di Leibniz , e corrisponde alla flussione di Newton . L’elemento fondamentale del metodo di Leibniz é l’introduzione del concetto di differenziale che è un infinitesimo . Tuttavia che cosa fosse precisamente nel pensiero di Leibniz l’infinitesimo , non è facile comprendere dalla lettura delle sue opere . Sembra che egli ammettesse l’esistenza degli infinitamente piccoli come infinitesimi attuali , ma qualche volta si ha la sensazione che egli considerasse questi infinitesimi semplicemente come quantità finite indefinitamente decrescenti . Il linguaggio di Newton è diverso dal nostro in quanto egli adopera il termine fluente per indicare una funzione ed il termine flussione per indicare ciò che oggi siamo soliti chiamare derivata .

Tuttavia Newton enuncia con chiarezza le principali regole di derivazione ( calcolo delle flussioni a partire dalle fluenti ) e quelle di integrazione ( calcolo delle fluenti a partire delle flussioni ) , a determinare con esattezza il legame che intercede fra i due calcoli , ad impostare e risolvere alcune equazioni differenziali , a farne numerose applicazioni alla geometria ed alla meccanica .Leibniz cominciò ad interessarsi di analisi infinitesimale nel , e poco dopo ebbe occasione di entrare in contatto con l’ambiente dei matematici inglesi ( incluso lo stesso Newton ) , contatto che lo stimolò a proseguire ed approfondire questo genere di indagini .

In verità Leibniz non ci dice esattamente che cosa siano i differenziali e , ma fornisce alcune regole precise per operare sul loro rapporto ( derivata di y rispetto ad x ) . Si tratta di regole identiche a quelle stabilite da Newton per le flussioni e che dimostrano una pari utilità nella risoluzione dei problemi geometrici . In termini moderni potremmo dire che Leibniz determina il tipo di algebra applicabile ai differenziali , scoprendo che essa risulta per molti aspetti analoga alla solita algebra valida per le grandezze finite . Dal calcolo delle derivate , leibniz passò ben presto a quello delle aree concepite come somme di indivisibili . Il segno di integrale , da lui introdotto per indicare l’operazione che ci porta da tali indivisibili alla misura della regione piana da essi riempita , ricorda da vicino l’iniziale del termine sommatoria . Il simbolismo leibniziano si rivelò subito estremamente felice , e permise di dare al nuovo ramo della matematica un assetto sistematica assai soddisfacente . Ma chi aveva per primo ottenuto i metodi del calcolo infinitesimale? Quando poi fu chiaro che fu Newton a compiere per primo gli studi sul calcolo, la disputa si spostò sull’equivalenza tra i due metodi: erano entrambi validi? Avevano entrambi la stessa potenza e generalità?

La disputa andò avanti per molti anni e famosi scienziati dell’epoca si schierarono dall’una o dall’altra parte, con perfino alcuni scontri nazionalisti tra matematici inglesi e continentali. Ai primi del Settecento fu Newton a trionfare, ma nell’Ottocento il lavoro di Leibniz fu molto rivalutato. Ci interessa in questo capitolo comprendere in modo imparziale come andarono veramente le cose e in che relazione possiamo considerare i due approcci all’analisi matematica.

Nel 1693 ci fu il primo e unico scambio di lettere tra Leibniz e Newton. I due si scambiarono dei complimenti reciproci, senza entrare minimamente nel dettaglio delle loto teorie matematiche. L’importanza storica di queste lettere `e soltanto di testimoniare i buoni rapporti tra i due, e nient’altro. Siamo alla fine del Seicento: La scienza sta vivendo una rivoluzione. Tutti cercano nuovi strumenti per descrivere il cambiamento, il moto, la velocità, l’accelerazione. Serve un nuovo tipo di matematica: il calcolo differenziale e integrale. Sia Isaac Newton (inglese) sia Gottfried Wilhelm Leibniz (tedesco) trovano soluzioni a questo problema, quasi contemporaneamente, ma in modo indipendente. Newton sviluppa il suo metodo attorno al 1666, durante un periodo di isolamento a causa della peste. Lo chiama “metodo dei flussi”. Usa concetti come fluenze (grandezze che cambiano nel tempo) e flussi (le loro velocità di cambiamento). Leibniz arriva alle sue scoperte tra il 1673 e il 1676. Crea un metodo più simbolico e algebrico. Introduce i famosi simboli dx, dy, \int, che usiamo ancora oggi. Newton non pubblica subito il suo metodo (lo tiene privato per anni). Leibniz pubblica il suo metodo prima (1684–1686), in articoli sulla rivista scientifica Acta Eruditorum. Quando gli inglesi vedono gli articoli di Leibniz, alcuni cominciano a sospettare che Leibniz abbia copiato Newton.

Leibniz aveva visitato Londra nel 1676 e aveva consultato documenti dove Newton parlava dei suoi metodi (anche se in modo molto criptico). Alcuni accusano Leibniz di aver “rubato l’idea” durante quella visita. Nel 1704, la situazione esplode: Newton pubblica l’opera “Opticks”, dove aggiunge alcuni appendici che parlano del suo metodo dei flussi. Alcuni matematici inglesi, fedeli a Newton (come John Keill), accusano apertamente Leibniz di plagio. Leibniz si difende, chiede una inchiesta ufficiale. La Royal Society (l’accademia scientifica inglese) viene incaricata di giudicare.

Newton è il presidente della Royal Society in quel momento. E addirittura scrive lui stesso il rapporto conclusivo dell’inchiesta sotto anonimato, accusando Leibniz. Newton effettivamente arrivò prima all’idea del calcolo. Leibniz sviluppò indipendentemente il suo metodo, in modo diverso e più accessibile. In Inghilterra, per molti anni, si rifiutò di usare il calcolo differenziale nella forma di Leibniz. Il continente europeo (soprattutto Francia e Germania) invece sviluppò la notazione di Leibniz. Questo ritardò lo sviluppo matematico inglese rispetto al resto d’Europa per quasi un secolo. Ha determinato quale notazione matematica avremmo usato: (oggi usiamo quella di Leibniz!).

Grande, più grande

G. Cantor

Georg Cantor, uno dei grandi innovatori della matematica moderna, sviluppò una teoria rivoluzionaria dell’infinito, dimostrando che non esiste un solo tipo di infinito, ma infiniti di diverse “dimensioni” o cardinalità. Egli introdusse la nozione di cardinalità per confrontare insiemi infiniti, mostrando che l’insieme dei numeri naturali ha la cardinalità più piccola degli infiniti, indicata con il simbolo \aleph_0 (aleph zero), mentre l’insieme dei numeri reali, ancora più vasto, possiede una cardinalità maggiore, pari a 2^{\aleph_0}. Attraverso il famoso argomento diagonale, Cantor dimostrò che è impossibile elencare tutti i numeri reali in una sequenza infinita, poiché per ogni elenco costruibile esisterà sempre un numero reale non incluso. Inoltre, egli formulò l’Ipotesi del Continuo, secondo cui non esistono cardinalità intermedie tra quella dei numeri naturali e quella dei numeri reali, un’ipotesi che in seguito si rivelò essere indipendente dagli assiomi della teoria degli insiemi standard. Oltre ai cardinali, Cantor introdusse anche i numeri ordinali per descrivere non solo la dimensione, ma anche la struttura sequenziale degli infiniti, mostrando che gli infiniti possono essere ordinati e manipolati con regole precise. Grazie alla sua opera pionieristica, l’infinito divenne non più un concetto vago o filosofico, ma un oggetto matematico rigorosamente definito, aprendo nuove strade nella logica, nell’analisi e nella teoria degli insiemi.

Un problema con l'infinito

Facciamo un passo indietro rispetto a quel che si è detto sul calcolo differenziale. Già nell'antica grecia gli esseri umani avevano problemi a fare i conti con il concetto di infinito matematico. Ad esempio, Euclide e soci non ammettevano l'esistenza di un infinito "in atto", ma solo di un infinito "potenziale", cioè di una quantità, sempre finita, da estendere a piacere, a seconda della necessità. Quando Euclide dimostra che i numeri primi sono infiniti, infatti, egli stesso sembra restio ad usare questa parola nei suoi scritti. Dice dunque:"Si ravvisa che i numeri primi sono più numerosi di qualunque assegnata quantità dei numeri primi", che è un po' una strategia per evitare di incappare in questa entità matematica innominabile, come quando da bambini non si voleva rivelare una verità semplice ma scomoda, e allora si componeva una perifrasi degna del Sommo Poeta per avere la coscienza pulita.

Disgraziatamente, da certi mali non si può fuggire, e infatti dopo che Pitagora scoprì l'incommensurabilità tra i segmenti, il mondo ellenico fu colpito da una verità terribile: quella per cui tante cose minuscole fanno una cosa finita. Zenone compose i suoi paradossi, e per diverso tempo la questione venne accantonata, nel senso che si evitò di discutere circa la reale natura dell'infinito. Occorrerà attendere le solide fondamenta posate da Cauchy e Weierstrass affinché il matematico Cantor, alla fine dell'ottocento, si prenda la briga di confrontarsi faccia a faccia con questa bestia infernale.

Cantor ha un'idea geniale, un'idea che rivoluzionerà il mondo della matematica: è il primo a formalizzare la teoria degli insiemi, e ad utilizzarla per scopi ben più profondi di quanto si potrebbe pensare. Il numero infatti diventa per Cantor la cardinalità di un insieme. Ovvero, tutti gli insiemi di cinque elementi diventano rappresentativi del numero cinque, quelli di quattro del numero quattro, e così via... A un certo punto Cantor si scontra con l'insieme dei numeri naturali e scopre che esso ha cardinalità infinita. Chiama questa cardinalità aleph zero, prendendo spunto dall'alfabeto ebraico, e inizia a fare delle considerazioni. Cantor capisce, ad esempio, che i numeri pari sono numerosi tanto quanto i numeri dispari, e che non sono la metà. Nella teoria degli insiemi questo ha molto senso: infatti se si mettono corrispondenza biunivoca i due insiemi (cioè si associa a ogni elemento del primo insieme uno e un solo elemento del secondo), si scopre facilmente che per ogni numero naturale, esiste un numero pari che gli si può associare. Dimostra che si può fare lo stesso anche con i numeri razionali. Ed è qui che viene il bello, perché poi passa ai numeri reali.

La svolta

Cantor immagina di voler associare a ogni numero naturale un numero reale. La cosa tuttavia gli riesce male, perché si rende conto che tra zero e uno non solo ci sono infiniti numeri, ma addirittura che questi numeri non compongono, nella loro totalità, un infinito numerabile, nel senso che non possono essere ordinati. Per cui Cantor capisce che la cardinalità dell'insieme R è maggiore di quella dell'insieme N, e la chiama "Cardinalità del continuo". La conclusione è che non esiste un solo tipo di infinito, ma almeno due: nel caso di aleph zero, esso è numerabile e i suoi elementi possono essere ordinati. La nuova cardinalità del continuo invece no: è un infinito ancora più denso, selvaggio, più problematico da gestire: non si sottopone a regole di enumerazione, né di distanziamento. Non è in alcun modo "discreto" (pessimo gioco di parole), poiché se prendiamo a caso due elementi dell'insieme N, avremo sempre un numero finito di numeri che li separa, mentre se prendiamo a caso due elementi di R, quali che siano, avremo sempre infiniti elementi a separarli. Per visualizzare ancora meglio la cosa: pensate di dover nominare i primi 100 numeri naturali: è una cosa che impariamo alle elementari e non ci da problemi. Però come si fa a contare i primi 100 numeri reali? Questo sarebbe decisamente più complicato da insegnare.

Cantor non si arrestò qui e dimostrò che, in verità, esistono infiniti livelli di infinto, di cui aleph zero è la base. Cioè aleph zero è un infinito, sì, ma il meno "denso" tra tutti i suoi fratelli maggiori. Certo, facciamo fatica a ragionare circa la cardinalità di un insieme ancora maggiore dei numeri reali, eppure è dimostrabile che è sempre possibile costruire un insieme di cardinalità superiore al precedente; basta creare un insieme composto da tutti i possibili sottoinsiemi dell'insieme infinito di partenza. Per esempio, mettendo nello stesso insieme gli infiniti raggruppamenti dei numeri naturali si può creare un insieme che ha la medesima cardinalità di quello dei numeri reali (che se ci si pensa è perfettamente logico, dato che un numero reale non è altro che una combinazione infinita di cifre).

Insomma, Cantor non solo, per la prima volta, abbraccia in toto il concetto di infinito, ma è capace di proiettare l'infinito nell'infinito, rendendo l'unico infinito che siamo capaci di ordinare, quello dei numeri naturali, solo il primo tassello, praticamente infinitesimo, di una serie infinita di infiniti.

L'infinito e l'uomo

Si chiama Sagittarius A, e di lui si sanno due cose: la prima, che ha la massa di 4,5 milioni di soli, la seconda, che ruota a una velocità di quasi un decimo di quella della luce. Si trova al centro della nostra galassia e si potrebbe considerare, in qualche modo, una fregatura estremamente voluminosa. Quando il fisico John Wheeler coniò l’espressione “i buchi neri non hanno peli” -rischiando peraltro la censura in alcuni quotidiani francesi- si riferiva al fatto che essi sono caratterizzati da due cose: la massa e la velocità di rotazione. Naturalmente la sua era solo una frase a effetto, ma in verità è un ottimo spunto per una serie di riflessioni. Come si vedrà di fatti, i buchi neri, di peli ne hanno e come. Si pensi al fatto che furono predetti dalla teoria della relatività generale come punti di singolarità. In fisica di solito si parla di punti di singolarità quando le equazioni che descrivono un certo fenomeno perdono di significato. Nei punti in questione le equazioni che spiegano la curvatura dello spaziotempo restituiscono risultati… infiniti. O infinitesimi. Parliamo di quelle zone dello spaziotempo in cui un corpo di una certa massa subisce un collasso gravitazionale; la gravità prevale su tutte le altre forze e tende a concentrare lo spaziotempo in un punto. Ecco, quel punto si chiama punto di singolarità, e la teoria della relatività generale non è più in grado di spiegare ciò che vi accade, perché in quel punto di volume infinitesimo si concentra una massa enorme. Se la cosa risulta difficile da comprendere, ecco un esempio più appetibile: immaginiamo di voler comprimere un corpo, che può essere un pianeta come una montagna, come un cane o un gatto: cominciamo a comprimerlo, e più lo comprimiamo, più esso comincia a deformare lo spaziotempo; quando l’oggetto sarà abbastanza piccolo (se si vuole calcolare il raggio di qualcosa di sferico affinché diventi un buco nero, il fisico Schwarzschild ci ha già pensato, trovate relazioni, calcoli e considerazioni qui: ), a un certo punto esso diventerà così “compresso” da generare il punto anomalo di singolarità. Sulla terra non c’è da preoccuparsi, non abbiamo le tecnologie per comprimere qualcosa al punto da farlo diventare un buco nero -si pensi che il raggio di Shcwarzschild dell’Everest corrisponde a poco più di un nanometro-, ma alcuni studi supporterebbero l’idea che miliardi di anni fa la densità dell’universo appena nato sarebbe potuta essere sufficientemente elevata da creare buchi neri di raggio estremamente ridotto. In ogni caso, la questione è che l’essere umano ha fatto i calcoli, e questi calcoli hanno rivelato che, apparentemente, in un punto di singolarità c’è una curvatura infinita dello spaziotempo.

G. Cantor

E’ una cosa piuttosto terrorizzante: la nostra galassia ruota ad alta velocità intorno a una “cosa” che non abbiamo compreso appieno. Abbiamo toccato l’infinito attraverso i secoli, abbiamo inventato i calcoli tensoriali e li abbiamo usati per spiegare lo spaziotempo, e ora la nostra ascesa verso la conoscenza si arresta, perché in quel singolo punto, infinitamente piccolo, avviene qualcosa di infinitamente grande. La questione si fa ancora più complicata dal momento che è impossibile dare una sbirciatina troppo da vicino a un buco nero senza essere spaghettificati. Da un certo punto in poi (chiamato con un certo spirito “punto di non ritorno”) la differenza di attrazione gravitazionale tra due punti del nostro corpo, per esempio tra la testa e i piedi, diventerebbe così grande che verremmo allungati con forza fino a essere ridotti a una cannuccia. Molti scrittori di fantascienza e registi si sono sforzati di immaginare cosa possa esserci al di là della singolarità, ma per ora pare che nessuno sia riuscito a cavare un ragno da un buco. Una prospettiva da far impallidire la Santa Inquisizione.

Ma questo non è ancora tutto, perché in effetti, circa gli infiniti e gli infinitesimi proiettati nel mondo della fisica, ci sono molte cose da discutere, cose che abbiamo capito straordinariamente poco perché, fondamentalmente, la nostra possibilità di osservare il mondo è scarsa e limitata. La luce visibile, che banalmente ci è necessaria alla vista, ha una lunghezza d’onda compresa tra i 400 e i 700 nanometri. Per qualsiasi cosa di più piccolo dobbiamo affidarci a macchine e computer, o ad altri tipi di segnali (come i rivelatori di particelle, trasduttori che trasformano l'energia cinetica depositata al loro interno dalla radiazione in un segnale elettrico). I microscopi non bastano più. Sul piano dell’infinitamente piccolo, siamo giunti a comprendere che la materia è composta da atomi, corpuscoli vuoti al 99,9%, le cui particelle elementari più ingombranti, protoni e neutroni, sono disposte in uno spazio piccolissimo, che è il nucleo, della dimensione di 10^(-15) metri. Abbiamo quindi capito che il mondo intorno a noi è fondamentalmente uno spazio vuoto. Cioè, lo spazio non è propriamente “vuoto”, ma è occupato dalle particelle nel modo più stretto possibile, data la loro natura oscillante. Queste particelle subatomiche non sono letteralmente particelle (nel senso in cui le intendiamo nella vita quotidiana) né sono onde (nel senso in cui le intendiamo nella vita quotidiana). Sono ciò che sono, ovvero quanti, e hanno proprietà sia ondulatorie che particellari, ma non sono, in toto, nessuna delle due cose. Il risultato è che non hanno dimensioni e posizioni fisse, ma si "spargono" nello spazio seguendo una funzione di densità di probabilità. Se scendiamo di un altro gradino, scopriamo che protoni e neutroni sono formati da quark, tenuti insieme da un particolare tipo di bosoni, i gluoni, i quali sono responsabili delle interazioni forti all’interno del nucleo e gli impediscono di disgregarsi. Ora, i quark hanno misura inferiore a 10^(-19) metri secondo le stime più recenti, tanto che sono considerati oggetti praticamente puntiformi, e pare evidente che, seppure la fisica teorica possa spingersi al di là del conoscibile e fare ipotesi circa la loro struttura ancora più primordiale (ipotesi come quella delle stringhe, secondo cui gli elementi primi della materia sono stringhe vibranti “composte” di molteplici dimensioni), ci vorrà tempo, e chissà quanto, per verificare sperimentalmente qualcosa di così difficilmente osservabile.

Il motore improbabile

Torniamo un attimo indietro, però, perché nonostante l’infinitamente piccolo sia -apparentemente- più complicato dell’infinitamente grande, ci sono delle questioni di cui, circa il nostro tema, vale la pena discutere. La prima si chiama “effetto tunnel”, e sarebbe degna di un libro di fantascienza (che effettivamente esiste, e del quale parleremo). L'effetto tunnel fu utilizzato nel 1928 dal fisico ucraino George Gamow (un tipo particolare che, tra le altre cose, tentò la fuga dall’Unione Sovietica fingendo di intraprendere una gita romantica in barca con sua moglie) per spiegare il decadimento alfa, nel quale una particella alfa (un nucleo di elio) è emessa da un nucleo atomico perché riesce a superarne la barriera di potenziale, anche se ha un'energia cinetica inferiore a tale barriera. Ora, secondo la meccanica classica, la legge di conservazione dell'energia impone che una particella non possa superare una barriera di energia se non dispone di un'energia pari o superiore. Questo corrisponde al fatto intuitivo che per far risalire un dislivello a un corpo è necessario compiere su di esso un certo lavoro, ovvero cedergli l'energia sufficiente per completare la salita. E ha perfettamente senso, se non fosse che la meccanica quantistica non si preoccupa mai di avere un senso, e infatti prevede che una particella abbia una probabilità diversa da zero di attraversare spontaneamente una barriera arbitrariamente alta di energia potenziale. Si diceva prima che una particella, come un elettrone, non “sta” in luogo ma “fluttua” in una certa regione dello spazio secondo una funzione di densità di probabilità. Nel nostro caso, poniamo che l’elettrone che stiamo osservando si trovi all’interno di un orbitale, dunque una zona in cui è fortemente probabile che si trovi (parliamo di circa il 90-95% di probabilità, a seconda dell'orbitale). Ora, secondo una interpretazione della meccanica quantistica, se nel nostro universo l’elettrone si trova in una certa posizione, allora in un altro universo, parallelo al nostro, tale elettrone si trova in un’altra. In tal modo, ogni possibile variazione in una funzione d’onda, ad esempio, è considerabile come il nucleo germinale di un nuovo universo; cioè il mondo come lo conosciamo non è altro che un’accozzaglia di eventi probabili verificatisi in un certo modo, ed al contempo ci sono altri infiniti mondi in cui le cose sono andate diversamente, così che ci troviamo a vivere in una sorta di nube probabilistica che dipende dalla natura stessa della materia. E ancora, si è visto che all'esterno dell'orbitale esiste una probabilità di poco meno del 5 percento di trovare l’elettrone. Volendo essere più precisi, la densità di probabilità si riduce quanto più ci si allontana dal nucleo. Questo significa che esiste una probabilità praticamente infinitesima che l'elettrone si trovi in un punto dello spazio a una distanza arbitraria dall'orbitale. Cioè riducendo la probabilità di trovare un elettrone a un numero infinitamente piccolo, tale elettrone potrà trovarsi dovunque possiamo immaginarlo. Ovviamente sarà quasi impossibile che esso si trovi in un punto dello spazio deciso da noi, ma è quel “quasi” a fare la differenza. Immaginando di voler indovinare la posizione di molte particelle, e non di una sola, si potrebbe dire che qualsiasi evento che comprenda un certo numero di particelle abbia una certa probabilità, per quanto infinitesima, di verificarsi. Per cui significherebbe che niente è impossibile, ma solo fortemente improbabile, ovvero si hanno infinite possibilità per probabilità praticamente nulle.

G. Cantor

Su questo fatto scherzava lo scrittore Douglas Adams quando, nel suo capolavoro “Guida galattica per autostoppisti”, raccontava le gesta del comune mortale Arthur Dent, che durante un improbabile viaggio interstellare incontrava Zaphod Beeblebrox, presidente della galassia. Zaphod era ricercato dalle autorità di tutta la volta celeste per aver rubato un’astronave che funzionava tramite un motore “a improbabilità infinita” che gli permetteva di percorrere distanze intergalattiche istantaneamente. Il motore, a quanto dice lo scrittore, dovrebbe funzionare più o meno così: quando il pilota della navicella aumenta il livello di improbabilità dalla console dei comandi, il corpo “astronave” comincia a subire variazioni via via più improbabili. Secondo Adams, ad esempio, con un'improbabilità dell'ordine miliardi di miliardi di miliardi su uno (l'improbabilità si scrive come una probabilità al contrario) la navicella può trovarsi con una certa densità di probabilità in una zona di qualche metro cubo. Aumentando il livello di improbabilità la navicella comincia a trasformarsi in oggetti casuali, e così via… Quando il motore a improbabilità infinita è settato su infinito, la navicella finisce per trovarsi in ogni punto dello spazio, assumendo ogni forma possibile e coincidendo con ogni cosa, con ogni materiale e con ogni essere vivente dell'universo, tutto all'unisono. La storia continua evidenziando quanto il motore a improbabilità infinita sia un'invenzione rivoluzionaria, perché permette agli esseri viventi di viaggiare a velocità superiori a quelle della luce, dato che può trasportare la navicella in qualsiasi punto dello spazio nello stesso momento. Trovate le informazioni su questo motore in questo video, parte del film omonimo tratto dal libro: Motore a improbabilità infinita

Questa questione è estremamente intrigante, e permette di ricollegarci con un nuovo problema che ha a che fare con l'infinito: la velocità della luce non è raggiungibile. E se non è raggiungibile, avrebbe senso che fosse infinita. Invece no: è molto alta, circa 300.000 km/s, ma è finita, e non ci possiamo arrivare. Questo è giustificato in molti modi, la giustificazione più quotata è che, dato che i fotoni (le particelle-onde che compongono la luce) hanno massa pari a zero, nulla può essere più veloce di loro. Questo è anche intuitivo: per muovere una cosa con una massa è necessaria più energia che per muovere una cosa priva di massa. Ma facciamo un passo indietro e vedimo di capire dove sta il problema più serio, a livello pragmatico. Partiamo dalla legge dell'energia cinetica. Sappiamo che, per oggetti che si muovono a velocità non relativistiche, si può usare la relazione E=1/2mv2. Questo ci porterebbe a pensare che, per una velotà pari a c, l'equazione diventi E= 1/2mc2, ovvero, che con una quantità di energia finita, -elevata- ma finita, si possa raggiungere la veloctà della luce. In verità sappiamo che questo calcolo non è affatto corretto, perché occorre considerare l'energia cinetica relativistica di un corpo, ovvero, tutte quelle variazioni dovute all'aggiunta del fattore di Lorentz gamma. Sappiamo che l'energia cinetica relativistica di un corpo di massa m si misura come: (γ − 1)mc²,

Per cui, combinando questa espressione con quella dell'energia intrinseca di un corpo, data dalla materializzazione della sua energia, che è la massa, ovvero E = mc², si ottiene:

che è proprio l'energia totale di un corpo che viaggia a una certa velocità. Ora, il fatto è che se proviamo a calcolare il limite per v che tende a c di questa equazione, scopriremo che per accelerare fino alla velocità della luce occorre energia infinita (fatto interessante: anche per frenare un corpo che viaggia ipoteticamente a velocità superiore a quella della luce servirebbe energia infinita); e non solo: più ci avviciniamo a c, più la quantità di energia richiesta per aumentare la nostra velocità aumenta rapidamente, cosa che renderebbe un nostro viaggio verso questa velocità estremamente, forse troppo dispendioso, almeno per ora.

Quindi niente rivelazione

Detta in termini semplici, dovunque ci sia bisogno di raggiungere qualcosa di infinitamente grande o infinitamente piccolo, ecco che non solo le nostre convinzioni vacillano, come forse hanno vacillato quelle dell'ottagono di flatlandia, ma che anche tutte le nostre certezze vanno in frantumi, le nostre equazioni non sono più sufficienti. Non sappiamo come arrivare a velocità troppo elevate, non sappiamo cosa accada quando una forza, come quella di gravità, si fa infinita a causa di una massa condensata in un solo punto; non sappiamo cosa accade a livello subatomico, né, precisamente, possiamo dire se il nostro universo sia unico, o se sia solo un frammento insignificante di una rete di molteplici universi. A conti fatti, non siamo capaci di figurarci una quarta dimensioni, superiore a noi, né l'assenza di dimensione, che apparentemente, come si è visto, sorregge la nostra logica. Però colpisce molto come, nonostante tutto, scienze come la matematica e la fisica ci permettano, ogni volta, di spingerci in là quel tanto che basta a cogliere un frammento un po' più grande di infinito. In fin dei conti, se stiamo cercando di comprendere due mondi così distanti da noi, fuori dal nostro radar, non dobbiamo aspettarci miracoli, né visioni mistiche, né verità rivelate. Malauguratamente ci troviamo proprio nel mezzo tra quello che non vediamo e quello a cui non arriviamo, e ad ogni passo che facciamo, ad ogni inciampo, non facciamo che raccogliere qualche dubbio in più.

E' proprio in questo che dovremmo riporre la speranza: l'umanità non ha mai, prima d'ora, avuto così tanti dubbi tutti insieme; la scienza ce ne procura di nuovi ogni giorno, e dobbiamo essergliene tutti grati. Molto prpbabilmente più la ricerca si farà fitta ed efficace, più noi umani avremo dubbi; dubbi su dubbi, dubbi sempre più consistenti. E probabilmente, citando Nietzche, il massimo a cui possiamo aspirare come razza non è un punto fisso, un sole attorno a cui ruotare, ma sono proprio questi dubbi. Più dubiteremo, più saremo spinti a porci quesiti sul mondo che ci circonda, meno rischieremo di impantanarci nella stolidità di convinzioni immutabili. E forse allora, nel dubbio infinito, in un nichilismo attivo maestoso e bellissimo, sarà l'ora di entrare in contatto con una dimensione al di là delle nostre tre. La scienza ha questa grande bellezza: non si propone mai di trovare solo una risposta. Il vero scienziato, più di tutto, non si fida di nessuno, e prima ancora che qualcuno glielo chieda, comincia a curiosare in giro.